Non sai quanto sei forte by Monica Contrafatto

Non sai quanto sei forte by Monica Contrafatto

autore:Monica Contrafatto [Contrafatto, Monica]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788852089039
editore: Mondadori
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


9

Mi sono addormentata dentro Call of Duty, mi sono risvegliata in Grey’s Anatomy, mentre venivo trasferita da una barella al lettino operatorio. Attorno avevo un manipolo di medici e infermieri. Le ultime parole che ricordo prima di piombare di nuovo nel sonno sono: «Woman, age 31». Poi più nulla.

Nella sfortuna, sono stata fortunata. Non sono stata centrata da un colpo di mortaio, che mi avrebbe ridotto a brandelli, ma da alcune schegge. Una mi ha contemporaneamente reciso e suturato l’arteria femorale. Il sangue nella mia gamba destra ha smesso di circolare. In compenso, nella parte superiore del corpo ha potuto continuare a scorrere. Devo a quella stessa scheggia la perdita di una gamba e aver salva la vita.

Il mio problema più grave, però, quello sul quale i medici sono intervenuti subito, non era la mano (nella quale hanno inserito un distanziatore al posto del metacarpo perduto), ma nemmeno la gamba: era un’emorragia interna dovuta a una seconda scheggia, che mi aveva perforato le viscere. Per fermarla e ripristinare una situazione accettabile, mi hanno tolto cinquanta centimetri di intestino e, già che c’erano, anche l’appendice.

A Delaram sono arrivata integra. È lì che ho perso la gamba. I dottori hanno prima praticato un by pass femorale, un “ponte” tra vasi sanguigni, nella speranza che far ripartire la circolazione inferiore fosse sufficiente per salvarla. Il sangue ha effettivamente ripreso a scorrere, ma c’era già un’infezione in atto, per cui hanno dovuto tagliare una prima volta sotto il ginocchio. Successivamente, siccome l’infezione era salita ancora, hanno dovuto amputare più in alto, e io dire addio al ginocchio.

Sono rimasta in coma farmacologico per quattro giorni. Non mi sono accorta di niente, nemmeno dei seimila chilometri che ho percorso fino a Ramstein, in Germania, dove si trova l’enorme ospedale americano nel quale finiscono tutti i soldati feriti in missione.

Quando ho aperto gli occhi era china su di me un’infermiera di colore. Mi trovavo in una specie di uovo, una stanza tutta bianca dove ero sola con i miei macchinari, i loro bip e un orologio. Fuori dalla porta c’era un’infermiera seduta giorno e notte, che verificava l’andamento delle funzioni vitali mie e di altri pazienti. Ero in terapia intensiva e non lo sapevo. Nella vita ne avevo fatte di tutti i colori, ma in ospedale non mi era mai capitato di metterci piede, nemmeno per andare a trovare qualcuno. Da bambina avevo il vizio di arrampicarmi: ero peggio di Mowgli. Un giorno, a Catania, uscii da un negozio in cui ero con i miei genitori: mi ritrovarono attorcigliata a un segnale stradale. Non me lo ricordo, ma le avrò prese di sicuro. Comunque. Mai una frattura, un punto di sutura, niente. A parte il dentista, non avevo mai visto un dottore e, siccome lo odiavo, anche dal dentista ci andavo poco.

L’infermiera stava facendo qualcosa, forse sistemando i presidi per la somministrazione dell’ossigeno. Avevo la sua faccia mascherata a due spanne dal volto. Ho pensato che mi volesse uccidere. Mi sono agitata, ho cominciato a urlare (per quanto possibile): «No eutanasia, no eutanasia!», e le ho impedito anche solo di sfiorarmi.



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